Patto per la Salute 2019-2021: forti criticità sulle prime indiscrezioni relative alla formazione medica specialistica

Su Quotidiano Sanità è stata ieri pubblicata una bozza del Patto per la Salute 2019-2021, accordo triennale tra il Governo e le Regioni relativo alle risorse e alla programmazione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il testo è datato al 27 febbraio e ancora non si conosce quello definitivo che in teoria dovrebbe essere concordato con le Regioni entro il 31 marzo.

Dal Ministero stesso è arrivata una nota in cui si precisa il superamento del testo riportato a mezzo stampa.

In attesa di ulteriori conferme, appare chiara l’intenzione di intervenire sul tema delle Scuole di Specializzazione, come anticipato dal capitolo “Valorizzazione delle risorse umane” che illustra infatti quali proposte sono state pensate e che potrebbero essere messe in campo.

Senza mezzi termini, il testo riportato desta un grande sconcerto perché ci appare impreciso e fuorviante, estraneo alla realtà condivisa quotidianamente da tutti i medici in formazione.

Vogliamo ripercorrerlo punto per punto, per riportare il focus sui temi corretti, sperando che la nostra analisi possa essere d’aiuto per il miglioramento della bozza.

1) “Nella maggior parte degli altri Paesi europei al medico in formazione specialistica è riconosciuta la propria dignità di medico ed è chiaramente regolamentata l’organizzazione pratica del lavoro che svolge sul campo.”

Come abbiamo illustrato anche recentemente durante una conferenza tematica al Senato, questa lettura non coincide affatto con il complesso quadro Europeo.

Semplificare il contesto formativo italiano ed europeo, guardando con miopia a modelli formativi esteri, va contro l’eterogeneità della situazione e dell’identità dello specializzando.

L’European Junior Doctors Association, network di giovani medici che comprende 22 Paesi, ha di recente condotto una survey sulla formazione post-laurea, in cui emerge che, nel 42% dei casi, i medici hanno una doppia natura di studente e lavoratore.

Questa doppia natura, che apparentemente può sembrare un ibrido poco funzionale, in realtà evidenzia bene i bisogni del medico in formazione, che, come dice il nome stesso, da un lato deve erogare prestazioni assistenziali in virtù delle competenze acquisite, e dall’altro necessita di una costante formazione per ottenerle.

Anche in Italia il DLgs 368 del 1999 spiega che “il medico stipula un contratto di formazione-lavoro”, e in nessun caso si parla solo di “studente” o solo di “lavoratore”.
Questa denominazione è stata poi successivamente modificata tramite la legge 266 del 2005, che a partire dall’Anno Accademico 2006/2007 ha introdotto la definizione di “contratto di formazione specialistica“, per precisare meglio lo status dello specializzando.

Al di là dell’etichetta, ciò che conta è che le due condizioni devono sussistere, mutando il loro equilibro man mano che lo specializzando avanza nel suo percorso formativo.

Il binomio formazione-lavoro è inoltre legato indissolubilmente alle competenze acquisite durante il percorso di studi pre e post laurea: tagliare con l’accetta l’uno o l’altro, senza revisione nel merito del percorso di studi per renderlo veramente formativo, risulterebbe poco strutturato e slegato dal contesto.

2) “Nel nostro ordinamento la presenza del solo canale formativo universitario, che sicuramente ha l’obiettivo di garantire una formazione specialistica di qualità, da un lato ha determinato nel tempo, un vero e proprio imbuto formativo, dall’altro ha portato a considerare lo specializzando non più un medico, ma uno studente privo di autonomia che in alcune realtà viene impropriamente utilizzato nelle corsie per far fronte alla carenza di personale per attività routinarie, senza che gli sia consentito di partecipare ad attività formative complesse (ad es. interventi chirurgici di alta complessità).”

Questo passaggio risulta alquanto controverso: si attribuisce al “solo canale formativo universitario” il merito di tutelare la qualità della formazione e successivamente vengono ad esso collegate criticità – assolutamente esistenti – ma legate ad altre ragioni.

L’imbuto formativo non è causato dall’attuale sistema formativo ma da una decennale programmazione scriteriata dei contratti di specializzazione insufficiente a colmare il fabbisogno di medici specialisti.

Non si può poi attribuire all’unicità del canale formativo né la dequalificazione della figura dello specializzando, né la carenza di personale, che finisce per demansionare lo specializzando stesso.

Le cause di questi due problemi sono da un lato gli scarsi strumenti di verifica della qualità formativa e, dall’altro, la mancanza di assunzioni, contratti poco appetibili e il progressivo svuotamento delle strutture che rendono il medico in formazione il tappabuchi del sistema.

Giova poi far presente che gli specializzandi già lavorano, erogano servizi e coprono turni, spesso anche al di là dei limiti di legge e con responsabilità più grandi di loro, senza avere il tempo di aggiornarsi e imparare davvero e quindi mettere in pratica quella componente di “studente” che invece è essenziale per l’apprendimento.

Guardando poi al dato internazionale, sempre la survey dell’EJDA prima citata illustra che nel 27% e nel 23% dei casi l’organizzazione della formazione è in mano rispettivamente alle università o agli ospedali (o altre istituzioni). Nei casi rimanenti, la responsabilità formativa è ripartita tra i diversi soggetti che concorrono alla formazione.

Anche questo punto per noi è fondamentale per smontare alcune interpretazioni strumentali: affermare, come a volte si legge, che si impara di più negli ospedali universitari o in quelli non universitari e che tutto il resto d’Europa agisce in un modo piuttosto che nell’altro, significa banalizzare una realtà più complessa, appiattendola su una dicotomia semplicistica.

Tutte le realtà devono coesistere e cooperare sinergicamente in un percorso unico e uguale per tutti, che possa offrire allo specializzando ogni possibilità formativa.

Infine, occorre ricordare che la riforma delle reti formative istituita con il DIM 402/2017 già stabilisce chiaramente che in ogni Scuola di Specializzazione possono afferire anche strutture non universitarie, che giustamente devono concorrere alla formazione e permettere agli specializzandi di ruotare al loro interno.

Si comprende quindi che con una simile interpretazione l’intento sia di spostare su un solo attore tutti i problemi della formazione, senza intervenire dove davvero ce ne sarebbe più bisogno, cioè sul controllo costante del rispetto delle leggi e sul potenziamento degli strumenti e degli organi di verifica.

3) “Fermo restando che in nessun caso lo specializzando deve essere utilizzato per sostituire personale di ruolo, Stato e Regioni convengono sulla esigenza di valorizzare il ruolo dello specializzando all’interno delle strutture, riconoscendo innanzitutto come recentemente chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza 5 dicembre 2018, n. 249, che il medico in formazione specialistica può svolgere con progressiva attribuzione di autonomia e responsabilità specifici compiti che gli sono stati affidati tenendo conto degli indirizzi e delle valutazioni espressi dal Consiglio della scuola.”

Il progressivo aumento dell’autonomia è già presente nel piano formativo dei medici in formazione ed è – o dovrebbe essere – conseguente all’acquisizione graduale di competenze teoriche e pratiche.

La vera questione è che al momento non ci sono strumenti adeguati per verificarlo. FederSpecializzandi è l’unica Associazione che ha sempre sollevato questo problema e che, da sempre, chiede l’introduzione di curricula nazionali per ogni Scuola di Specializzazione.

E si tratta non della semplice lista di attività da svolgere entro l’ultimo anno che purtroppo esiste ora, ma veri e propri manuali strutturati, in cui per ogni singola competenza vengono indicati gli obiettivi formativi, i processi di assessment e di valutazione, e le metodologie didattiche.

Per la Scuola di Chirurgia Generale, ad esempio, il DIM 68/2015, in sole 2 pagine, riporta obiettivi generici come “Lo specializzando deve aver svolto 325 interventi di piccola chirurgia di cui il 40% come primo operatore”.

Nulla viene detto sulla tipologia di interventi, su come debbano essere insegnati e valutati e con quale progressione negli anni.

Nel Regno Unito, ad esempio, esiste invece un curriculum chirurgico nazionale di 351 pagine in cui vengono descritti il profilo dello specialista in uscita, il syllabus delle competenze generali e specialistiche strutturato per learning outcomes (divisi in pratici, teorici e comportamentali), l’elenco delle tecniche di insegnamento (sul campo e formali), l’elenco delle tecniche di valutazione (sul campo e formali) da applicare per ogni learning outcome e la struttura del portfolio che certifica le competenze.

Senza un simile cambio radicale, anche nel nostro Paese ogni tentativo di dare responsabilità agli specializzandi, rendendoli indipendenti dal sistema formativo, sarà assolutamente aleatorio, non verificabile e disomogeneo sul territorio nazionale e per di più a rischio di contenzioso.

4) “Stato e Regioni si impegnano, inoltre, a disciplinare, accanto al percorso universitario, un alternativo percorso formativo regionale, in cui la formazione teorica degli specializzandi sia impartita dall’università, secondo le modalità definite con appositi protocolli d’intesa e la formazione pratica nelle strutture del servizio sanitario regionale. Tali strutture dovranno possedere requisiti uniformi su tutto il territorio nazionale, appositamente definiti, al fine di consentire che il titolo di specialista conseguito, rilasciato congiuntamente dall’Università e dalla Regione, abbia validità su tutto il territorio nazionale.”

Dopo anni di impegni e di dure lotte dal basso da parte degli specializzandi per svincolarsi dalle logiche locali e baronali, si dà il beneplacito alla costruzioni di reti formative autonome e discrezionali con standard differenti da quelli del percorso attualmente esistente.

Sarà così molto più facile, immaginiamo, inserire ospedali periferici a corto di personale all’interno delle reti in cui far ruotare gli specializzandi per la loro “formazione”, ottenendo proprio quello che si affermava di voler scongiurare, cioè il loro utilizzo improprio come tappabuchi di corsia.

Non basta possedere “prerequisiti uniformi” sulle singole strutture, bisogna avere percorsi costruiti in un’ottica formativa omogenea su tutto il territorio.

5) “Stato e Regioni convengono sulla necessità di prevedere, per le professionalità di medico, odontoiatra, veterinario, farmacista, biologo, psicologo, chimico e fisico, la possibilità di accedere al Servizio Sanitario Nazionale, oltre che con il diploma di specializzazione, anche con la laurea e l’abilitazione all’esercizio professionale, prevedendo l’utilizzo di tali professionisti all’interno delle reti assistenziali, per lo svolgimento di funzioni non specialistiche.”

Pur condividendo la necessità di inserire le figure citate all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, abbiamo assistito di recente a proposte che si concludevano con lo svilire le competenze acquisite all’interno di percorsi professionalizzanti, come l’emendamento al DL semplificazione sui concorsi in Medicina d’Accettazione e Urgenza e che abbiamo fortemente criticato.

Parlando delle figure mediche, inoltre, spesso si tratta di posizioni precarie necessarie solamente a soddisfare bisogni a breve termine del territorio, inserendo tali professionisti in percorsi di lavoro poco stimolanti e talvolta avvilenti. Questo approccio ha dimostrato di avere un duplice svantaggio, non riuscendo infatti a soddisfare le aspettative dei medici e le esigenze di un’efficace e lungimirante programmazione sul territorio.

Bisogna inoltre ribadire che senza una ridefinizione radicale del percorso formativo universitario pre-laurea, il rischio è di immettere nelle reti assistenziali, come purtroppo già succede, professionisti impreparati e inadeguati ad affrontare la complessità di certe realtà per utilizzarli (il verbo è purtroppo proprio quello riportato nel testo) solo per sopperire alle carenze di organico, con il rischio che si faccia “pratica” sulla pelle dei pazienti.

Ad oggi ai medici neoabilitati è data la possibilità di coprire i servizi di guardia medica senza che a volte nemmeno abbiano imparato a fare, ad esempio, prelievi venosi nei corsi di laurea. Anche in questo caso, se si vuole dare autonomia, bisogna prima passare per una seria rivisitazione della formazione pratica universitaria.

Altrimenti l’intento rimarrà lo stesso: trovare scappatoie a criticità del mercato del lavoro pur di non investire adeguatamente sui contratti di formazione.

Conclusioni

Coerentemente con quanto sostenuto in questi anni, anche recentemente in relazione ai pre-accordi sul regionalismo differenziato, esprimiamo il nostro più netto dissenso rispetto a simili proposte, che di fatto danno il via libera alla creazione di specializzandi di serie A e di serie B.

L’inserimento delle strutture regionali all’interno delle reti formative universitarie è avvenuto, come ribadito, attraverso il DIM 402/2017 su previsione di normativa precedente (DLgs 368/99 e DIM 68/2015) ed è quindi difficile motivare l’istituzione di un canale alternativo regionale. Anziché smantellare un sistema creato da soli due anni e ancora non a pieno regime, auspichiamo che si possano potenziare i sistemi di controllo e verifica sia delle strutture afferenti alla rete formativa ma anche e soprattutto delle capacità formative delle stesse.

Come FederSpecializzandi abbiamo sempre affermato con forza che non ci possono essere sconti sulla qualità formativa e non si può giocare al ribasso con la professionalità dei medici di domani.

Chiediamo percorsi uniformi su tutto il territorio con standard qualitativi elevati, migliori sistemi di controllo e, soprattutto, più contratti per risolvere definitivamente il problema dell’imbuto formativo.

Adesso leggiamo di un ennesimo tentativo di contenimento delle spese spacciato per grande riforma del sistema, le cui conseguenze si scaricheranno sulle spalle degli specializzandi e soprattutto sui cittadini.

Già oggi un chirurgo formato a Milano ha una formazione completamente differente non soltanto da un chirurgo formato a Roma, ma anche da un chirurgo formato a Pavia e questo comporta una disomogeneità qualitativa nelle prestazioni erogate con implicite disuguaglianze in Salute.

Con percorsi formativi paralleli il trend non farebbe altro che aumentare.

Ci auguriamo che questo testo sia una bozza ormai accantonata, perchè la sua approvazione, qualora queste proposte fossero confermate nella versione definitiva, significherebbe una pietra tombale sul tentativo di ottenere una formazione standardizzata e uniforme sul territorio nazionale, con un conseguente vero e proprio far-west formativo.

Ci aspettiamo un cambiamento concreto dal nuovo esecutivo, ma se queste sono le riflessioni preliminari, è decisamente di segno opposto a quello sperato.